Albenga Jazz Festival 2019, gran finale con Federico Marchesano Atalante feat. Louis Sclavis
di Alfredo Sgarlato – Gran finale per l’Albenga Jazz Festival 2019 con Federico Marchesano Atalante feat. Louis Sclavis. Accanto al clarinettista francese, tra i massimi interpreti dello strumento, tre giovani e talentuosi strumentisti italiani: Marchesano al contrabbasso, autore di tutti i brani, Enrico Degani alla chitarra classica, scelta inusuale per un gruppo jazz, e Mattia Barbieri alla batteria. Il gruppo prende il nome dal film capolavoro di Jean Vigo, opera leggendaria su cui prima o poi varrà la pena di tornare. Una proposta ancora molto diversa dalle due precedenti: stavolta ascoltiamo un jazz molto contaminato con altri linguaggi, com’è nella natura dell’eclettico Sclavis e del compositore Marchesano, che dopo il concerto mi conferma la sua passione per il Prog Rock.
Molte influenze compaiono nelle melodie, dalle musiche etniche al Canterbury Rock, creando un jazz molto moderno e originale, che è stato molto apprezzato dal numeroso pubblico presente (ho sentito commenti entusiasti anche da persone che conosco come appassionati di generi molto diversi). L’intesa tra i musicisti è notevole, Atalante è un quartetto che può lasciare il segno nel percorso del jazz europeo.
*Foto di Cinzia Vola
Ultima revisione articolo:
Traks Musica Indipendente
FEDERICO MARCHESANO @ CALICI SONORI: IL REPORT
Fabio Alcini 9/6/2018
Tocca al contrabbassista Federico Marchesano chiudere con un’esibizione da solista l’edizione 2018 di Calici sonori, che si è celebrata al Castello di Casale Monferrato (Alessandria).
Marchesano, noto per aver lavorato, tra l’altro, con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, nonché parte dei 3quietmen, prende il proprio posto al centro della scena. Poche concessioni al look (forse le stringhe delle scarpe verde fluo), si dedica allo strumento con passione e pazienza ma senza risparmiarlo.
L’esibizione è, di base, ardua e totalizzante: uno strumento solista che di solito solista non è, cioè il contrabbasso, che si occupa di dominare la scena in solitudine, guardato a vista dai contrafforti del maniero trecentesco.
Ma non ci sono mancanze nel fraseggio di Marchesano: la partenza è maggiormente percussiva, come a mettere subito dei punti fermi. Poi il flusso sonoro si sviluppa su più piani e livelli diversi, muovendosi su territori affini al jazz e alla classica. Ma è la personalità a colpire, sia che lo strumento sia suonato con le dita, oppure che preveda l’uso dell’archetto; che si inoltri per vie notturne o che si allarghi, a volte con dissonanze, su suoni a orizzonti più vasti.
Così vasti da raggiungere talvolta estremismi chiaramente psichedelici, come se al posto delle quattro corde del basso ci fossero le sei (o dodici, o quelle che sono) della chitarra.
La vita felice è preceduta da una breve introduzione dell’ultimo disco (“faccio un disco ogni dieci anni…” scherza Marchesano). Il brano mette in mostra anche le possibilità dell’autosampling, così da sdoppiare il suono tra ritmica e melodica in maniera efficace e drammatica. Si sfocia in aggressività elettrica non preventivata, di gusto quasi rock, senza indulgere al virtuosismo ma indugiando con attenzione nei passaggi e nel vibrato.
Si passa anche da sensazioni orientali e da una percussione multipla che sottolinea come le possibilità dello strumento, all’apparenza così monodimensionale, siano in realtà molteplici. Altri pezzi sottolineano la dimensione gutturale e ritmica, quasi a suscitare danze di estrazione balcanica.
Con i bis si recupera una dimensione più notturna e adatta alle luci calanti: si tenga conto che la performance ha luogo a ora di cena, più o meno. Si chiude con un’improvvisazione (Marchesano confessa candidamente di “non avere più pezzi”) ed è un pezzo vibrante e insistito, di consistenza più che di apertura cromatica.
Uno show corposo, anche fisico e molto originale, che mette in evidenza potenza e qualità e soddisfa palati fini ma non solo.
Il Giornale della Musica
1 Maggio 2018. Jacopo Tomatis
Federico Marchesano Atalante feat. Louis Sclavis – 8
Il primo set alle OGR, con la prima produzione originale del TJF, pure trasmette un’idea di jazz per niente ingessata e “tradizionale”. Federico Marchesano è uno dei musicisti torinesi scelti per lavorare con un grosso nome – in questo caso Louis Sclavis. L’organico è anomalo, tutto spostato verso le frequenze medio-basse, con il contrabbasso del leader, l’inconfondibile clarinetto basso di Sclavis e con una chitarra classica (dell’ottimo Enrico Degani) come unico altro strumento armonico (a cui si aggiunge la batteria di Eric Groleau). Atalante lavora su strutture cicliche, spesso in tempi dispari e con ritmi sostenuti, con contrabbasso e clarinetto che spesso si scambiano i ruoli senza risparmiare in volume. Il risultato è a tratti esaltante, e se talvolta il suono d’insieme patisce un po’ anche per l’acustica della sala – la chitarra classica, specie quando lavora sui bassi, viene spesso mangiata – il momento in solo di Marchesano (che ricorda a tutti di essere un esperto del contrabbasso solista: ne avevamo parlato qui) e una lunga cadenza in cui Sclavis dà sfoggio del suo repertorio di effetti sul contrabbasso compensano il tutto.
TORINO 7 – La Stampa
ARCHIE SHEPP ALLE OGR, IL PRIMO SET CON FEDERICO MARCHESANO ATALANTE FEAT. LOUIS SCLAVIS
Corso Castelfidardo 22, Torino
Un quartetto acustico la cui musica esplora i vasti territori del jazz contemporaneo. Il nome del gruppo rende omaggio all’omonimo, poetico e surreale film di Jean Vigo del 1934. L’Atalante è una barca-abitazione che percorre la rete fluviale francese, attorno alla quale si sviluppano le vicende di Jean e Juliette, due giovani sposi. Records. I brani proposti, in bilico tra scrittura e improvvisazione, abbracciano minimalismo, psichedelia, rock, jazz europeo, disegnando paesaggi sonori desolati e intimi. Louis Sclavis è l’ospite di questo progetto che annovera Eric Groleau batteria, Enrico Degani chitarra classica, Federico Marchesano contrabbasso. A seguire il secondo set con Archie Shepp Quartet guest Marion Rampal. Per Archie Shepp dobbiamo scomodare il termine “leggenda”. Il suo ritorno in Italia, dopo alcuni anni di assenza, è un evento imperdibile per gli appassionati e per chi non lo ha mai visto dal vivo. Shepp, drammaturgo, poeta, scrittore, cantante, compositore e ovviamente sassofonista dal talento unico, ha collaborato ad alcuni dischi fondamentali di John Coltrane, colui che ne ha favorito l’esordio nella prima metà degli anni Sessanta. Ingresso da 8 a 12 euro.
IL CORRIERE DELLA SERA 28 marzo 2018
Torna il Torino jazz festival: 60 concerti, 250 musicisti e 10 produzioni originali
Sul palco delle ex Officine Grandi Riparazioni, alle 21, andrà in scena una prima produzione originale TJF: il quartetto del contrabbassista e compositore torinese Federico Marchesano Atalante con ospite uno dei più autorevoli musicisti d’oltralpe, il clarinettista Louis Sclavis, e subito dopo l’icona del free jazz, Archie Sheep col suo quartetto con Special Guest la cantante Marion Rampal.
LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO. TORINO, 24 APR –
Il concerto del gruppo viennese dei Radian ha inaugurato, in un’Aula del Tempio del Museo del Cinema di Torino gremita, la sesta edizione del Torino Jazz Festival. Dal 23 aprile, per tutte le sere, fino alla fine del festival, il 30 aprile, sulla cupola della Mole Antonelliana viene proiettato il logo della manifestazione. Un modo per rendere omaggio al festival e dargli la massima visibilità. Sono intanto già esauriti i biglietti dei concerti di Federico Marchesano Atalante e Archie Shepp, giovedì 26 aprile alle ex Officine Grandi Riparazioni, e dell’artista belga Melanie De Biasio, il 30 aprile, al Piccolo Regio.
IL GIORNALE
Da oggi i musicisti solitari hanno una casa: Solitunes Records
A Torino è nata una nuova etichetta. Già questo, visti i tempi, basterebbe per parlarvene. Ma se vi raccontiamo della Solitunes Records è perché non si tratta di un’etichetta come le altre. A fare la differenza è l’obiettivo preciso con cui nasce: pubblicare solo dischi realizzati in solitudine da unici musicisti. L’idea è venuta a Federico Marchesano, Stefano Risso (entrambi contrabbassisti e compositori) e Francesco Busso (ghirondista attivo in campo folk e grafico). Tentacoli di Risso, The Inner Bass di Marchesano e La memoria dell’acqua di Enrico Negro sono i primi tre titoli, a cui presto si aggiungeranno nuove uscite. Delle prossime pubblicazioni, della nascita di Solitunes e dei rischi che la loro avventura musicale comporta, ce ne parlano due dei fondatori.
In un momento in cui le vendite di cd sono in calo, perché fondare un’etichetta?
Federico Marchesano: Secondo noi un’etichetta discografica non dovrebbe essere solo finalizzata a vendere le proprie produzioni, ma dovrebbe essere prima di tutto un luogo in cui la musica nasce, cresce e si affaccia all’esterno. Un cantiere dove le idee si concretizzano e diventano veri e propri dischi.
Stefano Risso: Le vendite in calo chiaramente non hanno connessione con la sempre maggiore esigenza di pubblicare e fermare su supporto la grande creatività musicale che stiamo vivendo in questo momento. In particolar modo penso che siamo immersi in un forte periodo di crisi, sia dal punto di vista economico che per quanto riguarda il supporto istituzionale agli artisti, ma proprio come nei periodi di grande crisi, osservo un evidente fermento artistico musicale e non. L’idea di un’etichetta nuova e con una mirata linea guida, è essenziale per fermare e raccogliere questo gran fermento. Di fatto pubblichiamo dischi ma a seconda delle esigenze dei singoli artisti abbiamo differenti modalità e differenti sono le possibilità di raccolta del materiale audio pubblicato. Finora abbiamo fatto CD uniti al download digitale. Per il futuro abbiamo in progetto dischi che usciranno solo in versione digitale, senza il supporto in forma di CD e stiamo valutando preventivi per la stampa su vinile.
Siete tre musicisti abituati ad esprimervi in contesti collettivi: da dove nasce l’idea di un’etichetta con l’obiettivo di pubblicare solo dischi realizzati in solitudine da unici musicisti?
Federico Marchesano: L’etichetta ha origine da una visione: “un musicista su un’isola deserta con un microfono pronto per registrare davanti a sé”, e si propone di documentare, quasi come se si trattasse di una indagine scientifica, il percorso interiore che un musicista compie durante la registrazione di un disco in solo.
Stefano Risso: Il “solo” è fortemente diverso dal percorso che si intraprende quando si fa musica con altri. Fino al 2002 avevo partecipato a gruppi come solo come “sidemen” e non avevo mai guidato direttamente dei gruppi. Poi ho sentito l’esigenza di dirigere, portando le mie idee e le mie composizioni, sempre disponibile ad ascoltare i consigli degli altri, ma con la consapevolezza che la decisione finale spettasse a me. Ho partecipato pure a gruppi collettivi coodiretti in cui il difficile era riuscire a trovare equilibri fra le differenti identità coinvolte, in maniera tale che si riuscissero a sentire tutte ed a riconoscerle come parte del progetto. Pian piano, siccome le due nuove esperienze mi coinvolgevano parecchio, l’essere “sidemen” è sparito. Il “solo” è stato per me un passaggio ulteriore. E’ un po’ sperimentare come e cosa riesci a fare da solo, senza avere consigli o suggerimenti dall’esterno… Un vero percorso psicologico indagatore verso il proprio inconscio. Sono assolutamente contento di averlo intrapreso e penso che non si esaurirà con Tentacoli, anche se le voci esterne mi piacciono e credo che non riuscirò a farne a meno se non per alcuni piccoli momenti del mio percorso musicale.
Numeri a parte, cosa deve avere un artista per colpirvi? Quali sono le vostre linee guida?
Federico Marchesano: Non facciamo discriminazioni di genere, ma solo di numero! Produciamo quegli artisti che ci sembrano più originali ed interessanti, che ci colpiscono e non ci lasciano indifferenti.
Stefano Risso: A mio parere fondamentalmente la grande creatività e la capacità di stupirmi. Mi fa piacere ascoltare cose che mi suonano nuove e cercare di scoprire il percorso che, registrando in solo, si è in qualche modo costretti a seguire. Nel manifesto dell’etichetta sta proprio scritto Solitunes: solo dischi in solo, non c’è alcun confine di genere, l’unico vincolo è numerico. Siamo in cinque e tutti, con gusti molto differenti, ascoltiamo tutto il materiale in maniera indipendente e poi ci confrontiamo, cercando di trovare una quadra fra opinioni diversissime.
Realizzare un album “da solista solo”: quali sono le potenzialità e quali i limiti e le difficoltà di questa operazione?
Federico Marchesano: Per ognuno è diverso, ci sono artisti che periodicamente si confrontano con il disco o lo spettacolo in “solo”, altri che impiegano una vita prima di approdare al disco in solitario. La cosa più bella ma anche più rischiosa è che si è completamente liberi di decidere ogni aspetto della produzione, a partire dalla composizione, fino ad arrivare all’esecuzione e alla registrazione della musica. Non ci sono interferenze nel processo artistico, viceversa manca il confronto con i propri compagni di gruppo, il che è spesso necessario per ottenere dei buoni risultati.
Stefano Risso: Realizzare un album in solo è fondamentalmente una grande sfida con se stessi. Ci si costringe a fermarsi, ad osservarsi e, per altri punti di vista, accettarsi. Si sente tutto il peso della responsabilità del risultato finale. In alcuni casi è un grande stimolo, ma in altri ti attanaglia la paura della responsabilità. Nel caso di Tentacoli è stato un po’ come fare il punto della situazione di quello che sono oggi, sia dal punto di vista strumentale che da quello compositivo, sotto il profilo di produttore e di quello di “elaboratore”, siccome in alcuni casi i files audio son fortemente trattati. Di 11 brani ho realizzato cinque video, occupandomi in prima persona anche della produzione e del montaggio.
Quali i vostri prossimi progetti?
Federico Marchesano: È appena uscito il nostro quarto disco, Sunset di Dario Bruna, con cui per la prima volta ci affacciamo al mondo dell’elettronica, anche se in una chiave molto originale, a partire dalla veste grafica del disco. A fine giugno saremo impegnati in una residenza artistica al Jazz It Fest di Cumiana.
Stefano Risso: Aggiungo che abbiamo in cantiere due dischi (che abbiamo commissionato) uno di solo sax e uno di solo violino. Il primo sviscera a fondo il parametro melodico ed il secondo sarà legato alla musica contemporanea. Non anticipo nomi, ma presto li troverete.
Intervista per Linkiesta maggio 2016
«Suoniamo Mozart e Jimi Hendrix: l’importante non è il genere, ma il mood del momento»
Federico Marchesano da vent’anni alterna basso e contrabbasso suonando jazz, rock e classica: «I musicisti dovrebbero mettersi in gioco di più, suonando in location inconsuete, e i direttori artistici dovrebbero creare stagioni più accattivanti»
Nel suo nuovo libro «Beethoven e la ragazza coi capelli blu» (Mondadori 2016) l’autore, il direttore d’orchestra e pianista Matthieu Mantanus, mette al centro della storia una giovane musicista che suona ad alto livello sia il basso elettrico in una rock band sia il contrabbasso in un’orchestra sinfonica. Musicisti “di confine”, ma non così rari come si potrebbe pensare. Con la rubrica #Beethoveninblue il JeansMusic Labraccoglie e racconta le loro storie in una serie di interviste “crossover”
Quarant’anni, più di 50 dischi pubblicati e un’intensa attività da musicista, Federico Marchesano non ama includersi in un genere: «Cerco solo di vivere la musica del mio tempo, qualsiasi essa sia». Contrabbassista e bassista, dal 2013 fa parte del Quintetto Bislacco, formazione classica nell’organico – cinque strumentisti ad arco – ma decisamente di avanguardia nell’esecuzione. «Suoniamo diversi capolavori della musica intrecciandoli a irriverenti gag, musicali e non, passando da Mozart ai Cugini di Campagna fino a Jimi Hendrix». E l’effetto per chi ascolta è entusiasmante: l’eleganza della classica unita alle contaminazioni della musica moderna a cui si aggiungono look e scenette dei musicisti convincono gli spettatori ad ascoltare fino all’ultima nota. A Torino, dove è nato e vive, Marchesano ha fondato con Stefano Risso nel 2015 una nuova etichetta italiana: la Solitunes Records. L’idea è produrre solo dischi di musicisti solista. Anche lui l’ha appena fatto con The inner Bass, il suo disco per contrabbasso solo.
Quando è nato l’amore per questo strumento?
Ho iniziato a suonarlo a 14 anni, una scelta in un certo senso obbligata: avrei voluto studiare il basso elettrico, ma all’epoca l’unico modo per studiare musica seriamente era iscriversi al Conservatorio dove quel corso ancora non esisteva! Così scelsi lo strumento che più gli assomigliava: il contrabbasso. Due anni prima, però, avevo già cominciato con il basso elettrico. E in realtà da bambino avevo anche studiato pianoforte. Dopo sono passato al basso elettrico per poi riprendere gli studi classici con il contrabbasso. Sono stato incoraggiato a suonare uno strumento in diverse occasioni: i miei genitori amavano la musica e in casa si ascoltava di tutto, da Jimi Hendrix a Bach passando per Battiato. E oggi quando voglio ascoltare musica non decido mai in base al genere. Piuttosto cerco un artista che sia nel mood del momento.
Nel 1999 ha vinto l’audizione per l’European Union Youth Orchestra e ha partecipato a un tour europeo di concerti: come ricorda quell’esperienza?
Fantastica: lavorare con direttori come Bernard Haitink e Colin Davis, suonando nelle più importanti sale da concerto d’Europa non è una cosa che capita tutti i giorni. Ho fatto parte dell’orchestra per un anno, poi ho iniziato a studiare alla Stauffer. All’estero, però, ho suonato anche jazz con la Europe jazz Odissey. E che si tratti di jazz o di classica posso dire che l’attitudine fuori dall’Italia è un po’ più rock ‘n roll. Si respira un’aria meno accademica, più festosa. Il pubblico è più caloroso.
Sono fortunato: suonare in diversi ambiti significa vivere diverse esperienze, conoscere altri punti di vista. Penso che le diverse tradizioni musicali si differenzino anche per le emozioni che veicolano. E a me interessa l’aspetto emozionale.
Federico Marchesano
C’è un professore di musica che ha inciso nella sua vita?
Il maestro Emilio Benzi: quando lo conobbi mi trasmise immediatamente il suo entusiasmo per la musica e per il contrabbasso, allargò notevolmente il mio repertorio e le mie vedute. Era totalmente dedito all’insegnamento – tanto che anche in estate, a scuola chiusa, ci invitava a casa sua a fare lezione sui passi d’orchestra, sempre gratuitamente. Fu il primo a dirmi chiaramente che il contrabbasso mi avrebbe dato da mangiare un giorno, spronandomi a studiare ancora di più.
Ha suonato in orchestre come l’Accademia di Santa Cecilia e quella da camera di Salvatore Accardo: i suoi colleghi classici cosa dicono del suo essere musicista “di confine”?
Ho sempre ricevuto rispetto e stima dai musicisti classici per le mie competenze extra accademiche. Io stesso ammiro molto le persone che suonano più di uno strumento. Alla fine quello che conta sono i risultati e l’impegno con il quale si affrontano i diversi studi. Se non tutti i musicisti classici suonano altra musica, e lo stesso si può affermare per i jazzisti o per i rockers, è solo perché spesso l’ approccio ad altre musiche è veicolato dallo strumento che si suona e dalla tradizione che porta con se. Il contrabbasso, ad esempio, è fondamentale sia nella classica che nel jazz e in tutte le loro derivazioni, per questo molti contrabbassisti suonano più di un genere musicale. Sebbene molti strumenti dell’orchestra abbiano oggi una “doppia vita”, rimane comunque meno scontato che un fagottista o un oboista si esibiscano in un jazz club. Ma anche qui ci sono notevoli eccezioni come Rino Vernizzi o Christian Toma!
Si sente diverso per questa capacità di suonare classica, rock e jazz?
No, e non penso di esserlo. Credo però di essere fortunato: suonare in diversi ambiti significa vivere diverse esperienze, conoscere altri punti di vista. Penso che le diverse tradizioni musicali si differenzino anche per le emozioni che veicolano. E a me interessa l’aspetto emozionale. Sono gli elementi in comune tra le diverse esperienze ad interessarmi maggiormente e a costituire il nucleo del mio lavoro, ed è quello che ho cercato di fare nel mio disco The inner bass.
Il rapporto con il pubblico cambia a seconda del genere?
Di solito quello che cerco di fare quando sono sul palco, al di là del genere che sto suonando, è di concentrarmi il più possibile sulla musica, sul controllo del corpo e dei movimenti che devo fare per suonare. Se questo “esperimento” riesce, allora anche il rapporto con il pubblico ne giova.
Uno dei gruppi di cui fa parte sono i 3Quietmen…
Suoniamo insieme da circa vent’anni! È un trio formato da me al basso e contrabbasso, Ramon Moro alla tromba e Dario Bruna alla batteria. Hanno definito il nostro genere come Math Jazz, Post Rock, Avantgarde…. Ci siamo formati suonando al Jazz Festival di Magdeburg. Ad oggi abbiamo inciso sette album, due dei quali insieme al pianista ECM Stefano Battaglia. Il nostro disco Bartokosmos, uscito per la Auand e dedicato alla musica di Bela Bartok, ci ha portati a suonare fino in Cina, dove abbiamo fatto un tour esibendoci anche nella Concert Hall della Città Proibita, oltre che al Roma Jazz Festival. Attualmente stiamo lavorando ad una particolare forma di improvvisazione, che abbiamo chiamato Instant Song.
Il contrabbasso è fondamentale sia nella classica che nel jazz e in tutte le loro derivazioni, per questo molti contrabbassisti suonano più di un genere musicale.
Continua a suonare anche in orchestre “classiche”?
L’insegnamento e l’attività di freelance negli ultimi due anni hanno preso decisamente il sopravvento, ma continuo a farlo. In particolare suono nell’Orchestra Filarmonica di Torino, con cui collaboro dal 1998. Far conciliare i diversi impegni è la parte più difficile del mestiere di musicista. E nel caso del contrabbasso anche il fisico deve avere il tempo di adattarsi, sia la tecnica dell’arco che del pizzicato richiedono molto studio e preparazione.
Rock, jazz, classica: quale genere preferisce?
La soddisfazione più grande la ottengo dal comporre musica e suonarla in gruppo: normalmente per i miei gruppi jazz, come 3quietmen ed Eternauta. Mi permette di non concentrarmi troppo sullo strumento, ma di avere una visione più ampia della musica che sto suonando. Quando suono classica, mi concentro molto sullo strumento, sul suono che voglio ottenere, sul come superare le difficoltà tecniche e su come realizzare le idee musicali. Una volta fatto questo, cerco di liberarmene e di godere della musica. Nel rock, invece, posso permettermi di avere un approccio più istintivo fin dal primo momento. La materia musicale è più semplice, le cose che contano sono il giusto suono, anche in termini di decibel, ed avere la giusta attitudine.
Lei insegna contrabbasso in un liceo musicale: come si riavvicina il pubblico più giovane alla classica?
Chi si iscrive ad un liceo musicale o a un Conservatorio ha già intrapreso un percorso in tal senso. La musica classica dovrebbe essere insegnata e diffusa in tutte le scuole, dovrebbe ritornare nei palinsesti televisivi e radiofonici, come fa la tv franco-tedesca ARTE. E dovrebbe essere più presente sui social, tornare ad essere argomento di discussione. Ma il vero, unico modo per diffonderla sono i concerti: per quanto i social siano efficaci, rimangono sempre un mezzo impersonale e freddo. La musica va ascoltata dal vivo! Gli stessi musicisti dovrebbero mettersi in gioco un po’ di più, suonando in location inconsuete e i direttori artistici dovrebbero creare delle stagioni più accattivanti: non scegliere brani orecchiabili ma creare una narrazione contemporanea intorno alla musica. Basterebbe svecchiare un po’ tutto il settore. E anche rivedere impianti scenici e scenografici durante i concerti potrebbe decisamente aiutare.
Intervista di Marianna Lepore per JeansMusic Lab
L’ISOLA CHE NON C’ERA aprile 2016
Federico Marchesano davvero non si è fatto mancare nulla: formazione classica, “divagazioni” metal e free jazz, esperienze soliste, all’interno di piccoli gruppi o di grandi orchestre, insomma una carriera all’insegna della differenziazione, dell’estrosità e dell’eterogeneità. E non è affatto strano che ad un certo punto sia emerso il desiderio di fare, in linea di massima, una sintesi di tutto ciò, partendo da uno strumento, il contrabbasso, che solo apparentemente può risultare “monocorde”.
Con The inner bass, il bassista e contrabbassista torinese realizza un lavoro in cui uno strumento considerato comunemente “classico”, e che come massima “deviazione” da questa classicità ha annoverato il jazz possa in realtà muoversi in direzioni assolutamente differenti, anarchiche se vogliamo, dirigendosi su terreni a lui poco consueti o generalmente ritenuti improbabili, il tutto con naturalezza e spontaneità.
E tutto ciò avviene senza grossi ausili tecnologici, ma con un utilizzo invero assai limitato dell’elettronica che si limita ad alcuni semplici pedali, utilizzati peraltro comunemente da bassisti e chitarristi di ogni ambito musicale; la sensazione è che l’obiettivo di questo lavoro sia quello di affermare che il contrabbasso sia, senza forzature, uno strumento “normale”, che possa tranquillamente esprimersi in ambito classico così come in ambito moderno e che non abbia, al di là della mole (che può davvero “preoccupare” chi è abituato a maneggiare strumenti più agili e confortevoli…) grosse controindicazioni rispetto a situazioni musicali generalmente non ritenute a lui adatte.
L’aver frequentato generi come il metal ed il free jazz permette a Marchesano un approccio a tratti aggressivo, ricco di svisate veloci e fortemente accentate, con le corde che perdono la “morbidezza” consueta per adattarsi a fraseggi più irruenti e metallici. Questa poliedricità si trasforma in capacità di eseguire brani del tutto eterogenei, che fanno riferimento a generi spesso distanti e differenti: dal metal e dal free jazz, come detto, alla musica afro, per passare poi a citazioni più vicine alla musica classica contemporanea, alternando esecuzioni più “orchestrali” ad altre in cui spiccano il virtuosismo, la rapidità esecutiva, la dinamica timbrica e del tocco. L’approccio allo strumento è, di volta in volta, più “canonico” oppure maggiormente “bassistico” e rivela il fatto che il contrabbasso ha, è il caso di dirlo, nelle proprie corde soluzioni musicali inaspettate, sorprendenti, come avviene ad esempio in Contrabutoh, brano che passa dalla solennità del suono tipico di un contrabbasso inserito in una grande orchestra alle “raffiche” di note riscontrabili in un brano metal.
Nelle dodici tracce di questo lavoro si riscontra una grande capacità di inventare letteralmente brani del tutto eterogenei, pescando sia dalla tradizione che dalla ricerca senza porsi minimamente, e fondatamente, il problema di legare un brano all’altro; anzi, il bello di questo album è proprio la continua sorpresa nel constatare come possano uscire, dallo stesso strumento, realizzazioni così differenti, suoni policromi, approcci tecnici inaspettati.
JAZZ IT aprile 2016
Solitunes records, un’intervista al collettivo piemontese.
In un’era caratterizzata dalla completa trasformazione della filiera produttiva musicale, un tempo nel quale le grandi e piccole etichette stanno poco alla volta capitolando alle leggi del mercato, mi ha molto incuriosito l’iniziativa di alcuni miei concittadini: l’apertura di una piccola etichetta discografica dedicata esclusivamente ai dischi in solo, la Soli Tunes Records. Nicchia nella nicchia, si tratta di un’idea estremamente stimolante che mi ha spinto a confrontarmi con i suoi autori invitandoli nel mio studio per un’intervista: Stefano Risso e Federico Marchesano, noti ed eccellenti contrabbassisti (ma non solo!), Francesco Busso e Alessandro Viale, grafici e creativi; non era presente ma fa parte del gruppo del collettivo – e mi sembra d’obbligo citarla – anche Lorena Canottiere, fumettista.
Perché fondare un’etichetta oggi? Nell’era della musica liquida avete comunque deciso di stampare i CD fisicamente. Quali riflessioni avete elaborato sul tema?
Stefano Risso / È vero che i CD non si vendono più ma siamo per stamparli comunque perché siamo sempre stati grandi consumatori di musica e abbiamo investito una quantità enorme di danaro in dischi! Nonostante l’avvento dell’MP3 abbia tolto un po’ di feticismo, gli oggetti a mio avviso hanno sempre il loro fascino. Avere il disco in mano alla fine è particolarmente soddisfacente; soprattutto realizzare un CD significa “fermare un momento” e il disco in quanto tale ha un significato, lo puoi portare con te, etc… Questo senza considerare l’aspetto grafico, che nella nostra etichetta è abbastanza centrale.
Federico Marchesano / Mi sembra comunque (un po’ cinicamente, forse!) che il digitale nel jazz non sia ancora davvero il supporto principale; avendo questa musica, purtroppo, un pubblico di età media più alta (lo si nota per esempio ai concerti) la diffusione della musica liquida, così come anche nella musica classica, non è ancora così sviluppata. L’oggetto fisico per questa fascia di pubblico è ancora importante e quindi ha senso stamparlo.
Un’etichetta di dischi in solo: perché questa scelta radicale? Che forma organizzativa avete costruito?
Federico Marchesano / Non l’abbiamo formalizzata, assomiglia di più a una cena (risate, NdR). L’etichetta sembra un collettivo senza esserlo, la nostra unione paradossalmente nasce dall’idea del lavoro in solo.
Stefano Risso / Io e Federico ci siamo trovati due anni fa e ci siamo confessati di avere quasi pronto un disco in solo. Anziché pensare di sfruttare i soliti canali (già il disco in solo è impegnativo, quello per solo contrabbasso ancora di più) abbiamo pensato di auto-produrlo; è nata con questa riflessione l’idea dell’etichetta che poi abbiamo sviluppato nel concentrarci sui dischi in solo. La riflessione è stata: ci sono milioni di etichette e stanno chiudendo tutte, che senso può avere aprirne una? Dobbiamo cercare un’idea forte che ci distingua.
Come è composto a oggi il vostro catalogo?
Federico Marchesano / Abbiamo pubblicato tre dischi (“Tentacoli” di Stefano Risso, “Inner Bass” mio e “La memoria dell’acqua” di Enrico Negro), a breve uscirà quello di Dario Bruna. L’idea è quella di produrre tre dischi all’anno, perché se no diventa estremamente difficile seguire bene i vari progetti. Di ogni disco stampiamo un numero di copie variabile da trecento a cinquecento».
Come avete lavorato all’immagine grafica?
Francesco Busso / L’idea è stata quella di lavorare sul concetto di minimale, riducendo al minimo ogni elemento e creando le cover manualmente, in modo che ogni copertina sia di fatto unica.
Federico Marchesano / Lo stile di Francesco, oltre all’idea della trasparenza, emerge in maniera netta, mi sembra un progetto artistico unico!
Come promuovete l’etichetta?
Federico Marchesano / Abbiamo investito le nostre poche risorse – siamo totalmente indipendenti! – in un ufficio stampa; una volta la distribuzione era importante, ma ormai riteniamo che senza una promozione reale non sia più significativa. Sul web siamo in fase di ricerca, siamo partiti con Bandcamp che funziona molto bene. Stiamo in parallelo valutando CD Baby, perché ci permetterebbe di essere presenti in tutte le piattaforme. Anche se a essere sinceri per esempio le pagina pubblicitarie cartacee hanno avuto una grande risonanza, il sito in realtà ha iniziato a muoversi dopo la loro pubblicazione. Si ritorna al discorso di prima: carta e dischi ancora funzionano!
Quali sono le linee guida del vostro lavoro?
Stefano Risso / Vogliamo realizzare un lavoro molto settoriale e mirato, nel quale ci si possa prendere cura con attenzione di tutti gli aspetti: non pubblicare a caso ma trasmettere un’idea forte di quella che è la nostra idea di musica e di dischi.
Federico Marchesano / Dando particolare importanza alla grafica; in questo senso ci è piaciuta molto l’idea delle isole, che esprimono bene il concetto di disco in solo!
Stefano Risso / L’dea dell’essere in solo si sviluppa anche nel non avere confini di genere, io e Federico arriviamo dal jazz, Enrico è un musicista folk con formazione classica, Dario ha realizzato un disco ancora diverso. L’unica regola che ci accomuna è quella di fare un viaggio da soli, ti chiudi nella stanza e ti chiedi: e ora cosa tiro fuori?
Federico Marchesano / È un concetto intimo, ma allo stesso tempo chi intraprende questo viaggio sa che prima o poi si esporrà in un disco, presentando quindi una musica di cui sarà responsabile totalmente: affascinante perché intima e pubblica allo stesso tempo.
Finanziariamente il progetto funziona?
Stefano Risso / Certo. Noi diamo il supporto come etichetta: sito, grafica (che conta moltissimo in questo caso) e l’artista paga la stampa fisica dei dischi al costo reale. Non teniamo percentuali né edizioni e i costi vivi (per esempio l’ufficio stampa) ce li siamo divisi tra noi. È divertente perché i dischi sono in solo ma il lavoro collettivo è simile a quello di una band!
Quali sono i vostri progetti nel medio/lungo periodo?
Alessandro Viale / Aumentare la varietà musicale e grafica; vorremmo anche implementare la componente video e continuare il discorso di sinergia aumentando il gruppo con nuovi stimoli e nuove idee. Ci sarà anche una parte organizzativa di concerti, creando degli eventi per promuovere il nostro lavoro.
Eugenio Mirti
LA STAMPA gennaio 2016
ALIAS gennaio 2016
ONDAROCK gennaio 2016
Federico Marchesano
The Inner Bass
La “Solitunes Records” è una delle più interessanti etichette italiane nate nel 2015. La loro missione è così descritta: “Un’isola deserta, un musicista, un microfono. Una dichiarata discriminazione di numero, mai di genere”. Come fossero proprio in un isola deserta i musicisti si accingono a iniziare un viaggio interiore che affronta le inquietudini e la paura della solutudine. Tra i tre album pubblicati dalla “Solitude Records” uno dei più interessanti è quello del contrabbassista, nonchè uno dei fondatori dell’etichetta, Federico Marchesano che – pur abituato a suonare in contesti di ensemble – si è cimentato in questo arduo e rischioso progetto. Marchesano, diplomato al Conservatorio G. Verdi di Torino, vanta decine di collaborazioni che spaziano da Roy Paci a Marco Minneman, solo per dirne alcune.
“The Inner Bass” è un lavoro che esplora – come suggerisce il titolo – il proprio strumento in profondità. Lo strumento a sua volta permette al musicista di intraprendere un percorso anche nella propria interiorità. Le corde del contrabbasso diventano strumenti per dialoghi non possibili con l’uso della parola. Grazie a espedienti tecnici (pizzicato o arco, distorsori e effetti) e a una grande cultura musicale, Marchesano riesce a creare un album che trasforma in opportunità quello che a lui stesso da giovane sembrava un limite; quello di non essere mai stato un musicista di genere. Questo gli permette di suonare, in un unico contesto, generi diversi che spaziano dalla musica accademica alla musica popolare.
Il percorso ci porta dai ritmi africani di “Afrobass” ai lenti ricami ambient di “Contrabutoh”. Il vertice assoluto, sia introspettivo che descrittivo, si raggiunge nei quattro brani “A journey to Sicily” che esplorano l’anima più sperimentale dell’album. Quasi una tetralogia che, tramite l’utilizzo di sovraincisioni e manipolazioni dei suoni, ci mostra un Marchesano ormai nelle vesti di vero compositore d’avanguardia. Partendo dalle inquietudini minimali di “La Cava di Modica” si giunge alle distorsioni di “Il Cretto” che concilia ritmi quasi metal (genere che Marchesano ascolta) a improvvisazioni noise.
La terza parte “Alfio u’ mutu” reintroduce cupi paesaggi minimali che si disperdono nelle spaventose dissonanze di “Gibellina Nuova”, brano di ricerca estrema in cui il suono del contrabasso diventa praticamente irriconoscibile, in quanto “preparato” in modo non dissimile al pianoforte del leggendario John Cage.
Ottimo inizo per la “Solitunes Records” che fa sperare in futuri sviluppi degni di attenzione.
(12/01/2016)